Rosso Quinto Quarto, la bottigliata nel cuore

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Di solito le bottigliate le prendi in testa. Stordiscono, confondono. Lasciano il segno. Se sopravvivi hai qualcosa da raccontare, una suggestione, un’esperienza – dolorosa o rivelatrice.

Il Quinto Quarto Rosso di Terpin di bottigliate me ne ha data una tosta, spiazzante. Conosco i vini di Franco. Ne ho scritto in varie occasioni, diffusamente anche su queste pagine digitali. E quando un vino lo descrivi, quando uno stile lo racconti, hai la sensazione di assorbirlo in te stesso. In cuor tuo senti che un poco ti appartiene, in qualche modo entra a far parte di te e… smarrisce il potere di sorprenderti.

Ma poi un giorno… magari sono settimane che assaggi ottimi vini da selezionare per una serata, vini ottimi appunto, ma infondo convenzionali, tutto sommato prevedibili, frutto e legno, legno e frutto… un giorno entri in un bar e non c’è nessuno, scorri la bacheca dei liquidi in mescita, e quasi distrattamente ordini il rosso di Terpin – è il base, si affretta a dire il ragazzo dietro il banco, quasi a volersi come Pilato lavar le mani nel caso di qualche stortura. Ma tu raccogli il bicchiere, con paterna indulgenza – ma che ne sanno..? – vai ad appollaiarti sullo sgabello più lontano, sotto la finestra, con la luce del pomeriggio che batte sulla mensola e il tuo quaderno e appunti da sistemare, e un vino che vorresti sodale discreto, né conturbante né disturbante, come fugace compagno.

E invece subito, dal principio, appena la luce colpisce il bicchiere riverberando attorno i riflessi del vino, ti accorgi che questo compagno non potrà essere discreto, né tanto meno silente. Magnetico fin dallo sfavillante cromatismo esige una compunta, totale attenzione.

Del colore immediatamente conquista la densità del pigmento, così lieve da esaltare una rossa trasparenza. Scorre con leggerezza, con un garbo inusitato. Accosto il naso al calice. Il profumo è vivo, fragrante, gioioso. Mi ricorda l’uva un poco acidula ma è tutto intessuto di fiori, propoli, avvolto in una freschezza balsamica e mentolata.

Un connubio di Merlot e Cabernet Sauvignon, ma non li riconosco. Gli odori sfuggono a qualsiasi catalogazione, si sprigionano con esuberante dinamismo, si susseguono cangianti. Ecco affiorare il frutto, piccole bacche selvatiche, ribes, fragoline, mirtilli in un tripudio di suggestioni olfattive. Rammentano l’impronta del Collio? Non so. Ritrovo certamente l’impronta di un uomo, di uno stile, di un pensiero. La sua coerenza. Emergono sbuffi di terra e sasso. Seducenti suggestioni che vorrebbero spingermi alla resa.

Resisto. Sovente un naso leggiadro illude, soltanto per dare nel sorso una cocente delusione. Resisto, e assaggio. Mi sovvengono ricordi di fermentazioni spontanee, lieviti selvaggi, chiarificazioni e filtrazioni bandite, solforose ai minimi sindacali. Penso alla terra sana, non spogliata, vezzeggiata in un approccio che oggi chiamiamo biologico ma che è solamente, come direbbe Venditti, amore.

Il sorso vibra agilissimo, quasi puntuto al principio, per poi espandersi in bocca come un leggiadro fiume, pregno di un’anima ricca, generosa, sapida. Un flusso, un danzare di aromi intrecciati… succo d’uva, frutti rossi, pietre sbriciolate e ricordi di bosco. Il corpo è materico, eppur lieve. Equilibrio, armonia, intensità paiono d’un tratto categorie vuote e inutili. Rifulge qualcosa nel liquido che non può, non vuole, non deve venire ingabbiato. Ha tempra rustica, il tono dell’artigianalità di un tempo, che dona purezza. Ancora un sorso e tutto si cangia, si amplifica, si distende, in una ipnotica sinfonia d’espressione.

Spulcio la rete, scorro le enoteche digitali e i loro slogan didascalici… vino base, vino quotidiano, entry level. Quante volte ho usato io stesso – anche ieri, anche oggi – simili locuzioni. Forse esse trovano ragione d’essere nel campionario di un piazzista, che sciorina tutta la gamma in assortimento ai potenziali acquirenti. Ma non dovrebbero trovare spazio sulle pagine o sulla bocca di un semplice, appassionato narratore. Perchè quando il vino tocca le corde dell’emozione, le categorie intellettuali crollano. Vengono meno gli schemi, le classificazioni. Esiste soltanto l’estatico momento, il contingente vissuto. Che va trasmesso con l’afflato del poeta, unico testimonio attendibile di tanta, incommensurabile gioia. O con il meravigliato stordimento di chi ha appena preso una bottigliata nel cuore.

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Supertuscans: quando il vino è seduzione

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In rivolta contro il vetusto disciplinare del Chianti Classico, che imponeva l’utilizzo di uve a bacca bianca per integrare il blend di sangiovese e canaiolo, alla fine degli anni Sessanta nacque in Toscana una turba di vini novi, capeggiata dal Vigorello di San Felice.

L’insurrezione, pacifica ma irriducibile, osteggiava l’immagine di un Chianti ormai fossilizzato da quasi un secolo: quella di un vinello facile, asprigno, mai buono, che vendeva a tonnellate in virtù del un prezzo plebeo e dell’iconico fiasco impagliato.

In controtendenza, si voleva dunque produrre vino di qualità, e per farlo occorreva sposare la ricetta abbozzata dal barone Bettino Ricasoli: abbandonare fantasie uvaggistiche e vinificare sangiovese in purezza. A volerlo, si badi, non era una nouvelle vague di giovani vignerons in rivolta ai loro padri. La campagna toscana, infatti, dopo le nefaste alluvioni degli anni Cinquanta era andata svenduta per quattro soldi e un tozzo di pane a società finanziarie, fondi d’investimento, o patrizie casate famose e famigerate come gli Antinori, i Frescobaldi, gli Incisa della Rocchetta; costoro promossero la fronda, che da una costola del Chianti Classico doveva portare alla nascita del mito di Bolgheri e dei Super Tuscans.

Un ruolo decisivo lo ebbe il genio di Giacomo Tachis, enologo (oggi si direbbe winemaker) di stoffa non comune, pupillo di Piero Antinori e creatore nel 1975 (ma era la vendemmia del ’71) di quel Tignanello che contribuì a coniare il neologismo “super toscano” ad opera di Gino Veronelli.

Cosa distingueva questi vini novi dai loro predecessori e rivali?

In primo luogo, fattore decisivo, l’utilizzo della barrique francese in luogo delle vecchie, enormi botti di rovere di Slavonia. Questa botticella, spesso nuova e dall’intensa tostatura, conferiva al vino una setosa morbidezza del tutto rivoluzionaria per l’epoca, arricchendo il bouquet di suadenti note speziate, elegantemente legnose, tostate, cioccolatose e affumicate.

In secondo luogo, all’egemonia del sangiovese si sostituì nel tempo la nobiltà del cabernet sauvignon, integrata dall’irresistibile piacioneria del merlot. Un connubio inossidabile e vincente, voluto in prima persona da Tachis che era andato a perfezionarsi a Bordeaux e che per tutta la vita ritenne il cabernet sauvignon uva somma, assoluta e inarrivabile.

Negli anni dunque la definizione di SuperTuscan si modificò da quella iniziale per giungere a quella comunemente accettata oggi: “vino toscano di elevata qualità prodotto al di fuori dei disciplinari DOC e DOCG utilizzando vitigni internazionali in luogo o in aggiunta ai vitigni autoctoni.”

Di recente abbiamo presentato una serata dedicata ai super toscani. Vi figuravano, oltre al citato Vigorello, i due fratelli “cadetti” dei più celebri Sassicaia e Ornellaia: rispettivamente il Guidalberto e Le Serre Nuove. Accomunati tutti da una leggiadria, da una sontuosa eleganza, compendiate nella purissima definizione del frutto, nel calibrato equilibrio, nella finissima espressione di profumi e aromi.

Per tempra e natura, apparteniamo a quella razza di assaggiatori edonisti che, forse sbagliando, chiedono al vino di essere soprattutto fonte di piacere, ispirazione, estasi. Al netto di ogni altra considerazione, riteniamo che non possa esservi alcun effettivo valore in un vino se viene meno al suo preciso dovere di seduzione e sensorio appagamento. Se fossimo costretti a baloccarci tra filosofie spicciole e fervori georgici preferiremmo piuttosto rileggerci la “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel.

Per la cronaca, Le Serre Nuove dell’Ornellaia ci è piaciuto enormemente. Una bottiglia da circa quaranta euro che mantiene tutte le promesse. E sarà nostra cura proporre quanto prima al nostro seguito di appassionati un memorabile approfondimento della figura di Giacomo Tachis.

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4 esercizi per migliorare le proprie capacità olfattive

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Una dei maggiori crucci che un sommelier fresco di corso o un aspirante intenditore incontra sovente sul suo percorso sta nella difficoltà di identificare con precisione i profumi e gli aromi che il vino offre al naso ed all’analisi gusto-olfattiva. Con il tempo e la pratica, il neofita riesce a costruirsi una memoria olfattiva, un bagaglio di impressioni ben radicate che lo guidano durante la degustazione tecnica. Ma al principio il riconoscimento può risultare arduo e frustrante.

Ecco dunque quattro esercizi che spero possano esservi di aiuto:

  1. Per allenare la sensibilità olfattiva ecco un esercizio proposto da Daniele Cernilli nel suo Memorie di un assaggiatore di vini (per inciso, un libro da leggere assolutamente). Fatevi preparare cinque bicchieri d’acqua in cui avrete chiesto di disciogliere piccoli quantitativi di alcol etilico. Un bicchiere d’acqua con due gocce di alcol, uno con cinque gocce, uno con sette, ecc. , e un bicchiere di acqua semplice. Fatevi aiutare da un’altra persona. Provate a indovinare in quale bicchiere è contenuto più alcol, in quale ve n’è una quantità inferiore, e così avanti fino ad arrivare al bicchiere di acqua semplice. Analogamente, potete disciogliere in vari bicchieri d’acqua poche gocce di oli essenziali di diverse fragranze: violetta, rosa, sandalo, mandarino, arancia, finocchio, salvia, e tutto ciò che riuscite a trovare. Anche qui potete farvi aiutare da un’altra persona. Cercate di riconoscere la fragranza, e sforzatevi di memorizzare la peculiare sensazione olfattiva che le appartiene.

  2. Per un degustatore sprovvisto di uno spiccato talento naturale, l’esperienza e l’applicazione risultano le armi migliori. Distinguere una ciliegia da una marasca non è semplicissimo, così come individuare alla cieca un profumo di visciola, ribes rosso, o lampone. Per accrescere la vostra dimestichezza con gli aromi dei frutti di bosco procuratevi marmellate o confetture di buona qualità. Non generiche, ma di singole varietà: prugna, ribes nero, mirtillo, mora, mora di rovo, amarena, marasca, ribes rosso, lampone, mirtillo rosso, visciola, fragola, ciliegia, susina. Fate un piano di assaggi, diciamo tre confetture a settimana. Di ciascuna assaggiate un cucchiaino ogni giorno, sforzandovi di memorizzare il peculiare aroma che percepite in bocca. Vi tornerà utile anche al naso.

  3. In fase di degustazione, adottate una specifica scansione olfattiva strutturata per categorie. In un vino bianco giovane, ad esempio, soffermatevi su quattro maxi-categorie: fiori, frutti, agrumi (che sono frutti anche loro, ma la distinzione aiuta), erbe aromatiche. Una volta che avete individuato una maxi-categoria, provate ad aumentare la precisione: per esempio, riguardo a “frutta”, si tratta di frutta bianca, gialla, o tropicale? Quindi aumentate ancora la precisione: la sensazione, diciamo, di frutta tropicale che cosa mi suggerisce? Mango? Lychee? Ananas? Passion fruit? Spesso questa scansione è superflua, perchè siamo in grado di cogliere immediatamente la qualità esatta di un profumo. Ma talvolta, specie quando il vino ha un’intensità olfattiva assai tenue e fatichiamo a “inquadrarlo” risulta utile procedere in questo modo. Naturalmente, una volta identificate le maxi-categorie e riconosciuti i profumi esatti, possiamo aggiungere ulteriori categorie: speziato, balsamico, etereo, ecc. e procedere come sopra. Stesso discorso, restando in tema di vini bianchi, per eventuali note da malolattica, affinamento sui lieviti, o maturazione in legno. Per i vini rossi si procederà nell’identico modo, con le dovute correzioni.

  4. Qualche volta non un singolo vino ma un’intera tipologia può offrire alla nostra olfazione suggestioni di grandi intensità e nitidezza che però non siamo in grado di identificare con precisione. A me in passato successe con il Vermentino di Sardegna, ad esempio. Ma per voi potrebbe essere il Riesling renano, o il Sauvignon Blanc della Loira, o la Malvasia istriana. Procuratevi una buona guida, di quelle che non fanno economia di descrittori aromatici nelle loro schede. Potrebbe essere la guida della vostra associazione di sommelier, o un’altra. Andate a spulciare una decina di schede sulla particolare tipologia (es. Vermentino di Gallura, in versione giovane e fresca) che non riuscite a mettere a fuoco con precisione, e prendete nota dei descrittori impiegati dall’assaggiatore. Spesso questo esercizio si rivela utile e ci fa accendere una lampadina in testa.

Buone olfazioni!

Alla prossima

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Tignanello: vita e miracoli di un grande rosso italiano

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Nella Hall of Fame dei più prestigiosi vini italiani il Tignanello occupa un posto di rilievo, accanto a etichette del calibro di Sassicaia, Ornellaia, Solaia, Masseto, Siepi, e alle migliori espressioni di Barolo, Amarone della Valpolicella, e Brunello di Montalcino.

Nasce da una storica vigna abbarbicata sulla sommità di una pittoresca collina in località Tignanello, nel comune di San Casciano Val di Pesa, cuore del Chianti classico. Il nome pare derivi da Tinia, divinità etrusca venerata dalle antiche genti del luogo.

Il vigneto Tignanello di proprietà dei Marchesi Antinori comprende 57 ettari stesi su alberese e galestro, ad un’altitudine media di 350-400 metri sul livello del mare. In fase vegetativa le viti godono di una cospicua insolazione bilanciata da notti fresche: fattori che garantiscono una maturazione equilibrata, concentrazione aromatica e buona acidità. Accanto al Sangiovese, i filari annoverano uve Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, oltre a piccole quantità di Syrah e Merlot che furono piantate molti anni fa a scopo di sperimentazione.

Il Tignanello nacque ufficialmente nel 1971 su impulso del Marchese Piero Antinori e dell’enologo Giacomo Tachis, nell’ottica di creare un grande vino italiano capace di reggere il confronto con i Bordeaux d’Oltralpe. La presenza accanto al Sangiovese di Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc e l’affinamento in barrique costituivano all’epoca scelte enologiche rivoluzionarie che comportarono in primo luogo l’uscita dal disciplinare storico del Chianti Classico stabilito dal Barone Bettino Ricasoli; e quindi l’inserimento nel novero ancora ufficioso di quelli che sarebbero stati poi definiti “Super Tuscans”.

Il successo fu mondiale. Merito del marketing di Casa Antinori, collaudato da sei secoli di storia e attento anche all’esempio californiano dei Mondavi, merito dell’impostazione rigorosa – oltre che del talento visionario – di Giacomo Tachis sia nella gestione viticola che in quella enologica, merito di un mercato che su scala planetaria aveva fame di un grande rosso made in Italy, un mercato che ancor oggi vede nella Toscana un simbolo assoluto di prestigio e bellezza.

Lo stile incarnato nel Tignanello persegue l’ottenimento di uve con spiccata concentrazione aromatica e tannini morbidi. Sulla collina di Tignanello il Sangiovese talvolta fatica a raggiungere la piena maturità, dando sfoggio della sua indole “nervosa”. Per questo vengono utilizzate le pietre bianche di alberese, prima frantumate e poi disposte ai piedi del filare, che riflettono la luce solare apportando quel bonus indispensabile per una maturazione ottimale. In cantina il mosto fermenta in tini troncoconici di legno, segue una pressatura soffice e la malolattica svolta in barrique. La macerazione, l’estrazione del colore e dei tannini, e la movimentazione dei mosti sono compiute con la massima delicatezza per preservare finezza ed eleganza. L’affinamento in rovere francese e ungherese si protrae per 12-14 mesi, in botti nuove e di primo passaggio. Le diverse varietà vengono vinificate ed elevate in legno separatamente per essere poi assemblate pochi mesi prima dell’imbottigliamento.

Dal 1982 il Tignanello è composto da Sangiovese 80%, Cabernet Sauvignon 15 %, Cabernet Franc 5%, ma occorre tener presente che nel lustro 2001-2006 vi fu un aumento del 5% del Sangiovese a scapito del Cabernet Sauvignon. Oggi al timone di Marchesi Antinori c’è Renzo Cotarella, eletto miglior winemaker del mondo nel 2001, enologo prodigioso che anno dopo anno dal feudo di Bargino continua a sfornare vini magistrali per eleganza e definizione aromatica.

Il Tignanello nel bicchiere → Rosso rubino di grande concentrazione e vivacità. Il corredo olfattivo denota soavità, eleganza ed un caratteristico tono balsamico. Profumi netti di ciliegia, lamponi e frutti rossi su un tappeto di sottobosco e violette. Ampio comparto speziato, dai chiodi di garofano alla vaniglia all’anice stellato. Sensazioni tostate e di torrefazione. Al palato l’ingresso è fresco ma carezzevole, con tannini setosi e integratissimi. Splendida intensità aromatica che si arricchisce di cioccolato e polvere di caffè, a sostegno di un finale lungo e persistente, in cui riecheggiano note balsamiche e mentolate. Materia prima di elevata qualità, mirabile sapienza enologica. Un grande rosso italiano.

Una bottiglia di Tignanello viene immessa sul mercato ad un prezzo che si aggira attorno ai 75 euro. Secondo le tabelle di Lavinium.it annate strepitose sono il 1990, 1995, 1997, 1999, 2006, 2008 e in prospettiva sarà eccellente il 2016. La 2012 viene accreditata come il migliore fra i millesimi più recenti. Prosit!

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Coravin®: cos’è, a cosa serve, quanto costa

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Da sempre il pericolo ossidazione costituisce uno spauracchio temibile in fatto di conservazione del vino. Una volta stappata la bottiglia, l’aria modifica le proprietà organolettiche del vino, determinando una perdita di freschezza ed un rapido deterioramento qualitativo.

Il Coravin® è un dispositivo di ultima generazione prodotto negli Stati Uniti che consente di versare un bicchiere di vino senza stappare la bottiglia. Nato nel 2011, nel corso degli anni ha subito un processo di continuo affinamento e costituisce oggi uno strumento innovativo e potenzialmente rivoluzionario nell’arsenale di molti professionisti del settore e semplici appassionati enofili.

Come funziona esattamente? Il Coravin® è dotato di un ago sottilissimo e di una boccetta contenente gas Argon. L’ago penetra il tappo di sughero spillando il vino e al contempo insufflando Argon, che impedisce all’aria di penetrare nella bottiglia. Il gas entra nella bottiglia e sostituisce il liquido versato; dopo aver estratto l’ago il sughero si ricompatta. Il vino residuo non subisce alterazioni dal punto di vista organolettico, e la bottiglia può essere conservata ancora per anni, come se non fosse mai stata aperta.

Assortimento e prezzi → Il Coravin® è facilmente acquistabile in rete presso i ben noti portali di e-commerce. Si parte dai 185 euro per il modello base fino a modelli che toccano i 325 euro. Le differenze di prezzo, piuttosto significative, non riguardano la meccanica, che permane immutata, ma la qualità dei materiali delle singole componenti. Una boccetta di Argon viene accreditata per circa 15-16 bicchieri con un costo variabile dai 9 ai 15 euro: solitamente vengono vendute a coppie. L’ago in acciaio inossidabile rivestito di Teflon® viene accreditato per un centinaio di mescite e più, ed è compreso nel Coravin® al momento dell’acquisto; vengono venduti aghi sostitutivi standard che costano intorno ai 25 euro.

I benefici addotti dalla tecnologia Coravin® consentono la mescita a bicchiere di etichette costose presso enoteche, wine bar e ristoranti, soggetti da sempre restii a stappare una super bottiglia per un singolo assaggio al bicchiere. Per ragioni culturali il mercato italiano si sta mostrando meno reattivo al Coravin® rispetto a quello anglosassone. Tuttavia, proprio la possibilità di degustare vini top class al calice senza l’impegno economico di acquistare la bottiglia offre benefici sia al venditore che al consumatore. E non sono secondari nemmeno i vantaggi per quegli appassionati che, nel tepore domestico del salotto o sotto le volte della cantina, potranno a più riprese centellinare i propri vini preferiti, godendoli a piccoli assaggi per un tempo molto più lungo.

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Vigneti Pittaro, grandi spumanti friulani

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Agli albori degli anni ’70 le contrade agricole attorno a Codroipo, nel cuore delle Grave del Friuli, erano aride, sassose, povere d’acqua, bruciate in estate dal sole agostano. Non vi era nulla, tranne il silenzio e qualche carretto di fieno. Ma un uomo straordinario ne intuì le potenzialità, studiò la morfologia del territorio, prese a modello i grandi dell’epoca e trasformò una campagna desolata in un mosaico di vigne lussureggianti e vigorose distese su novanta ettari di pianura. Quell’uomo si chiama Piero Pittaro e la sua azienda rifulge a tutt’oggi come una fra le stelle più brillanti nel firmamento enoico friulano.

Un’eccellenza conquistata con ostinata determinazione, un anno dopo l’altro a partire dal 1982, con la scelta di produrre una linea di spumanti Metodo Classico che negli anni è cresciuta in qualità e assortimento e si è consolidata grazie alla competenza e alla perizia tecnica di Stefano Trinco, valente enologo da oltre un trentennio alla guida della celebrata cantina di Codroipo.

Abbiamo incontrato Stefano in un pomeriggio piovoso, e siamo rimasti impressionati dalla passione che infonde nel raccontare i suoi vini, il suo territorio, la storia a tratti perigliosa e l’ascesa della “Vigneti Pittaro”. Non un enologo come taluni: freddi, calcolatori, asettici come certi vini “pastorizzati” da eccessivo zelo tecnologico; ma un uomo di tecnica e cuore in cui sono integrate ragione e sentimento, che s’infiamma al ricordo dei giorni trascorsi come cicerone di Giacomo Tachis in visita nel Friuli.

Uomo di cuore Stefano, ma anche di tecnica. Una tecnica affinata negli anni sul modello dello Champagne, accresciuta da frequenti viaggi in terra d’Oltralpe, e perfezionata con la pratica di oltre trenta vendemmie gestite in prima persona. L’influenza francese si specchia nella ricerca di uno sparkling che esprima il territorio, la tipicità friulana. Le conoscenze d’avanguardia della scuola spumantistica francese – sul piano viticolo come anche enologico – vengono traslate nelle Grave sassose, fra Udine e Pordenone, per realizzare un prodotto che, pur non potendo per cause di forza maggiore toccare le medesime vette di eccellenza, possa comunque rappresentare un apice, un’icona della spumantistica italica.

Rispetto allo Champagne – inarrivabile secondo Stefano Trinco – meno acidità e più polpa. Maggiore struttura, maggior corpo. La formula magica Pittaro nasce dalle nozze alchemiche fra Chardonnay e Pinot Bianco: versatile, avvolgente, finissimo il primo; aromatico ed elegante il secondo. Da queste parti, per la cronaca, il Pinot Bianco può considerarsi alla stregua di un vitigno autoctono. Per insondabili capricci del mercato, esso fatica a vendersi se prodotto in purezza, ma in blend con lo Chardonnay trova una dimensione assolutamente congeniale nel Metodo Classico.

Sulla base delle esperienze raccolte in Champagne, del modello Trentodoc come bollicina di riferimento in ambito nostrano, e della stima che lo lega a molti tecnici in Oltrepò Pavese, Stefano Trinco ha messo a punto una gamma di sparklings davvero intriganti. Scopriamoli insieme.

Talento Brut Etichetta Argento → teoricamente entry level ma in effetti biglietto da visita di Vigneti Pittaro. Cinquantamila bottiglia all’anno. Blend: Chardonnay 80%, Pinot Bianco 20% Obiettivo: uve mature. Le rese mai troppo ridotte per lo spumante, si può spingere fino ai 110-120 quintali senza patemi. La base spumante viene vendemmiata dopo il Pinot Grigio, il che è tutto dire, cercando in primo luogo la maturazione del frutto. Stefano persegue gli 11° naturali, che danno un’acidità non altissima (7-8 contro i 9,5 in Champagne) ma garantiscono polpa. Vinificazione in bianco rigorosa, pressatura frazionata in stile Champagne. Vinificazione senza solforosa, tutto in iperossigenazione dei mosti. Fermentazione con gli stessi lieviti utilizzati per la spumantizzazione, poi affinamento in acciaio sui lieviti con frequenti batonnage. Parte del Pinot Bianco conclude la fermentazione in barrique dove rimane fino a primavera. A maggio-giugno si procede alla spumantizzazione. Affinamento sui lieviti dai 30 ai 36 mesi. Dosaggio intorno agli 8 g/l. Due mesi di affinamento in bottiglia e poi via. Nel bicchiere? Mirabile equilibrio fra struttura e freschezza gustativa, mela polposa e frutta tropicale, cenni vanigliati, inserti dati da lievito e rovere.

Talento Brut Etichetta Oro (millesimato) → stessa base spumante. Diecimila bottiglie. Permanenza sui lieviti dai 60 ai 72 mesi. Bolla finissima, acidità quasi immutata, maggiore struttura, si attenua il registro dolce (legno, vaniglia, tostato) per esaltare più marcate note di lievito (crosta di pane, biscotto, pasta frolla) e talvolta note minerali. Sparkling maturo, evoluto, di gran classe. Dosaggio attorno i 6 g/l, più secco ma molto apprezzato.

Pink Brut Rosato → Rosè da Pinot Nero, prodotto dalla fine degli anni Novanta e ormai consolidato come terzo moschettiere dell’assortimento Pittaro. Cinquemila bottiglie. Permanenza sui lieviti da un minimo di 24 fino a 36 mesi. Dosaggio 8,5 g/l. Cromatismo rosa salmone, delicate note di piccoli frutti rossi e crosta di pane, suggestioni minerali. Fresco e armonico nel sorso, dotato di buona struttura e trama gustativa, ideale come aperitivo ma capace di reggere a tutto pasto.

Ribolla Gialla Spumante → La scelta di spumantizzare la Ribolla, icona dell’enologia friulana, nasce su ispirazione di quella di Manlio Collavini. Metodo Classico ma con un ciclo più breve, una sorta di Cava friulano. La Ribolla non è lo Chardonnay, ammette Stefano. Attenta selezione dei lieviti. Permanenza più breve, il range ideale oscilla fra 18 e 24 mesi. Dosaggio fissato a 8,5 g/l. In commercio dal 2014, è un prodotto che si sta facendo strada. Nel bicchiere sfoggia un perlage fine e persistente, un corredo odoroso che racconta di ginestra, mele e pesca bianca con note di crosta di pane. Equilibrata, fresca, slanciata: ideale compendio di cruditè marinare.

Stefano Trinco ribadisce come, a livello di produzione, lo spumante debba fondarsi su un progetto rigoroso. Non si può improvvisare soltanto per rimpinguare il catalogo. Occorrono anni di prove, fallimenti e insuccessi, prima di trovare la quadratura del cerchio. Se si sceglie il Metodo Classico bisogna rassegnarsi a un lungo affinamento sui lieviti: 24 mesi sono il minimo sindacale. Molti in Friuli non resistono, dopo nove o dieci mesi sboccano e immettono alla vendita. Ma occorre tempo affinchè il legno possa integrarsi con il lievito, ci vuole pazienza. Poi i risultati arrivano, e sono incontestabili. Come la qualità, la freschezza, la complessità e la piacevolezza di beva. Ci ritrovo tutto questo quando stappo uno spumante Pittaro. Soprattutto, ritrovo uno stile cristallino e la passione per l’eccellenza. E sono felice. Alla prossima!

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Analisi sensoriale vs Degustazione geosensoriale: due mappe per capire il vino

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In numerose opere miliari delle più disparate Scienze Umane incontriamo il seguente aforisma di Alfred Korzybski: “la mappa non è il territorio”.

La rappresentazione (mappa) che utilizziamo per descrivere una cosa (territorio) sarà sempre e soltanto una descrizione e non potrà mai cogliere in maniera completa ed assoluta la realtà vera ovvero l’essenza della cosa.

Bene, fantastico Federico… e tutto questo che c’entra col vino?

Ogni volta che degustiamo un vino in maniera tecnica utilizziamo una mappa per descriverlo e valutarlo. Questa mappa potrebbe essere la scheda AIS, ONAV, FISAR, WSET, ecc. ovvero un qualsiasi metodo interpretativo che abbiamo studiato, digerito e interiorizzato e che oggi applichiamo quasi in automatico. Ma se riflettiamo, ci accorgiamo che ognuna di queste mappe descriverà il territorio, ossia il vino in esame, in maniera differente. Piccole differenze a volte, talvolta grandi differenze.

Lo spunto per tale riflessione mi è venuto leggendo “Il vino capovolto” edito da Porthos e curato da Sandro Sangiorgi, in cui sono raccolti gli scritti enoici di Jacky Rigaux, da molti anni docente presso l’Université de Bourgogne. Il libro racconta la degustazione geosensoriale, una specifica “mappa” che l’autore contrappone all’analisi sensoriale in voga oggi presso tutte le maggiori associazioni di assaggiatori e sommelier.

L’analisi sensoriale, a tutti noi ben nota, consiste nel processo di esame visivo, esame olfattivo, ed esame gusto-olfattivo in cui si dà un ordine alle varie impressioni, ponendo un’enfasi che Rigaux definisce la “supremazia del naso” che “… soddisfa il consumatore in cerca di profumi”. In sostanza, la tesi del professore è che da alcuni decenni il vino sia diventato più qualcosa da annusare che da bere, e che la valutazione di molti vini osannati – e spesso a suo dire “costruiti” – segua questo orientamento.

La degustazione geosensoriale pone invece la sua enfasi sulle percezioni gustative. Questa tecnica, secondo l’autore, era la tecnica classica dei professionisti e degli intenditori di vino ancor prima del Rinascimento, soppiantata dall’analisi sensoriale soltanto nel XX°secolo. Il fondamento teorico di questa mappa è che nel vino si debba ritrovare espresso il terroir. Tale espressione tuttavia non si sviluppa nel registro olfattivo ma nel concetto di “mineralità” che pertiene al gusto, e in una serie ulteriore di categorie descrittive.

La principale categoria è la consistenza o sève “…generata dalla materia naturale dell’uva che attraverso la fermentazione indotta dai lieviti indigeni darà un succo più o meno denso o concentrato, secondo le caratteristiche e la qualità del terroir e ugualmente secondo la qualità dell’annata. Si parla di corpo, struttura, scheletro, spalle. Un vino viene anche definito carnoso, compatto, fitto.”

La consistenza di Rigaux non è la concentrazione ottenibile dalle moderne tecniche enologiche (concentratori, osmosi inversa, macerazione di trucioli di quercia, ecc.) che infondono “potenza” ma non riescono a dare complessità, bensì la concentrazione naturale del vino dovuta ai fattori citati.

Seconda categoria essenziale, trascurata dall’analisi sensoriale, è la densità o viscosità che il professore ritiene “criterio irrinunciabile per apprezzare un vino di terroir”. La formula della viscosità è questa: (zuccheri + alcol + glicerolo) + qualità dei tannini. Il vino esprime una carnosità più o meno accentuata. Cito ancora Rigaux: “Concentrarsi sulla viscosità permette di cogliere la qualità del tannino: rotondo, delicato, grasso, untuoso… o duro, chiuso, acerbo. Quando il vino è giovane ma ottenuto da un grande terroir si avverte la densità dei tannini e, subito, la sensazione oleosa. Grazie alla viscosità, la mineralità può esprimersi senza essere dominante: la viscosità è la culla della mineralità, essendo il tannino l’elemento fondamentale del grande vino di terroir.”

La morbidezza è ugualmente essenziale: una sensazione di seta o di velluto che caratterizza l’ingresso in bocca donando immediata piacevolezza, esaltando la mineralità, in grado di fondersi mirabilmente ad un finale nervoso e sapido.

La vivacità è la tensione, la nervosità del vino data dall’acidità, complemento cruciale in un vino di qualità che risulterebbe altrimenti piatto, molle, e fiacco.

La mineralità è l’impronta del terroir, ossia il tratto che rende quel vino autentico, unico. L’enologo e giornalista David Lefebvre ha approfondito il descrittore “minerale”: odori e sapori silicei, sulfurei, di polvere da sparo, bruciati, ossidati, di grafite, di inchiostro, di pietra spaccata, sono in grado di sottolineare la grande varietà del sentore minerale.

A ben vedere, Rigaux è un estremista che sposa una tesi e la difende con argomenti non sempre inoppugnabili, e a me non interessa minimamente dargli ragione o torto. L’aspetto più stimolante di tutto questo discorso incentrato sulle mappe a me è parso subito quello di poter applicare due o più filtri diversi allo stesso vino per vedere che cosa ne esce. E dunque ci ho provato con il seguente piccolo esperimento, sforzandomi di adottare una terminologia che fosse in entrambi i casi abbastanza tipica:

OSLAVJE 2008 RADIKON

Venezia Giulia IGT Chardonnay – Sauvignon Blanc – Pinot Grigio

Analisi sensoriale Colore ramato intenso, consistente. Ventaglio odoroso intenso, ampio, che sprigiona in lenta progressione prugna sotto spirito, uva sultanina, frutta tropicale (mango), liquirizia, tabacco e ruggine. Note ossidative ed eteree armoniosamente integrate. Sorso secco, abbastanza morbido, sapido e piuttosto tannico. Aromi di bocca intensi e corrispondenti, con un finale lungo e sapido dominato da frutta tropicale con sfumature di ruggine e pietra. Molto persistente. Decisamente fine ed armonico. Gran vino. 93/100

Degustazione geosensoriale Colore ramato ricco, profondo, viscoso. Naso intenso, pulito, complesso, in cui profumi fini di frutta e spezie si fondono a sentori di terroir più rustici e sanguigni, minerali, ossidativi. Entra in bocca corposo, compatto, oleoso, con una presa tannica avvolgente e maschia, ed una trama non priva di increspature. Una lama di pietra ne attraversa lo scheletro, esaltando una mineralità franca e silicea che si esprime nel lungo finale. Molto persistente. Vino di carattere, genuino, a tratti scorbutico, più ampio ad ogni sorso. Fonde un’anima contadina alla nobiltà del terroir. Gran vino.

Abbiamo usato due mappe per descrivere lo stesso territorio. E adesso provateci voi… 😉     

 

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Bentonite, gomma arabica & altre creature mitologiche

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La genesi di un vino è governata dalla chimica. Facciamocene una ragione. Questa chimica può riguardare sia le reazioni spontanee o indotte che avvengono durante il processo di vinificazione sia l’utilizzo di tutta una pletora di additivi, eccipienti, tecnologie e sostanze varie a discrezione dell’enologo.

L’enologo è quella figura cruciale nel mondo del vino che, grazie ad una formazione tecnico-scientifica di stampo accademico, custodisce tutti i segreti della chimica applicata al vino e li centellina con parsimonia attraverso parole misteriose che scaglia talvolta sul malcapitato sommelier/giornalista/blogger/povero-cristo-visitatore-della-cantina come fossero stellette ninja degli anni Novanta (ve le ricordate???).

Queste parole un po’ spaventano, un po’ confondono, un po’ nessuno capisce cosa vogliano dire (tranne l’enologo). Somigliano a formule magiche con le quali zittire un interlocutore spocchioso o logorroico, facendolo sprofondare all’istante in un abisso di sabbie mobili. Vecchi trucchi da enologo, insomma, a prova di troll.

Ma là dove gli enologi tacciono e gongolano, là ove regnano il buio, la confusione e l’incertezza, abbiamo voluto accendere una luce, innalzare un faro, così da illuminare concetti oscuri e misteriosi, catalogarli e traghettarli una volta e per sempre nella dimensione della chiarezza e della trasparenza.

Seguimi dunque, caro lettore, affinché i termini astrusi che talvolta ti scoraggiano rivelino finalmente il loro significato esatto.

Pronto..? Iniziamo!

Gomma arabica: si tratta di una gomma naturale estratta da un’acacia di origine subsahariana. Dal punto di vista chimico è una miscela complessa di polisaccaridi e glicoproteine, completamente edibile e commestibile per l’organismo umano. In enologia la gomma arabica si utilizza come stabilizzante, ma incide anche sul profilo organolettico del vino riducendo astringenza e amarezza e donando morbidezza e rotondità. Il dosaggio è abbastanza allegro, scarsamente regolato, chi vuole può esagerare. Qualcuno direbbe trattasi di sostanza ideale per produrre vini ruffiani, piacioni, e morbidoni, ma noi non lo diciamo.

Metabisolfito: il diossido di zolfo (SO2), noto anche come solforosa, viene comunemente impiegato in enologia sotto forma di metabisolfito di potassio, un “solfuro” con proprietà conservanti, antisettiche e antiossidanti. Si tratta di un sale da sciogliere in acqua in soluzione al 10% per incorporarlo alla massa.

Bentonite: minerale argilloso di origine vulcanica utilizzato in polvere, diffusissimo in enologia per le pratiche di chiarificazione e stabilizzazione dei vini bianchi e rossi, secondo il concetto per cui “il vino di qualità deve essere stabile e limpidissimo”.

Lieviti aromatici: esiste un florido mercato di prodotti per enotecnica che servono a “far esplodere” nel bicchiere i profumi del vino come fuochi d’artificio. I lieviti aromatici, presenti sui cataloghi di tutte le maggiori aziende del settore con nomi esotici e intriganti, e pubblicizzati come fossero il Sacro Graal, sprigionano aromi specifici e caratteristici che spaziano da un fragrante fruttato a un delicato floreale a sentori complessi ed evolutivi da invecchiamento e molto,molto altro.

Chips: sono schegge di legno in grado di conferire determinati aromi al vino. Si usano in infusione, un po’ come le bustine del the. Tipicamente utilizzati per infondere sentori di rovere, vaniglia, spezie dolci, come alternativa economica all’affinamento in botte.

Microssigenazione: processo in cui, dopo la fermentazione alcolica, si pongono a bagno nel vino dei microinfusori che cedono quantità controllate di ossigeno. L’ossigeno e l’acetaldeide prodotta dell’ossidazione del vino polimerizzano i tannini, riducendo l’astringenza e rendendo il vino più morbido, concentrato e avvolgente. Ruffiano e piacione? L’hai detto tu.

Pied de Cuve: concetto ostico, particolarmente caro ai vignerons naturali. Si tratta in parole povere di utilizzare lieviti indigeni non-Saccharomyces per innescare la fermentazione alcolica, prima che prendano il sopravvento i Saccharomyces Cereviasiae molto più tosti e performanti. I primi, quelli non-saccharomyces, sono ritenuti più tipici e territoriali e forniscono un’impronta originale al vino. Circa una settimana prima della vendemmia si raccoglie una certa quantità di uva che viene poi pigiata (spesso coi piedi): il pigiato viene posto in un recipiente in cui i lieviti indigeni presenti sulle bucce rimangono a contatto con il succo. Entro qualche giorno dovrebbe partire la fermentazione i cui si dovrà monitorare la crescita dei lieviti. Questo pied de cuve verrà successivamente impiegato tramite inoculo per innescare il processo fermentativo di una maggiore quantità di mosto.

Tartrati: le precipitazione tartariche sono dovute principalmente a una cattiva conservazione del vino e si rivelano nel bicchiere sotto forma di minuscoli cristalli, i tartrati appunto, evidentissimi nei vini bianchi e talvolta anche nei rossi. Diciamo subito che sono innocui, inodori e insapori. Però sono brutti e disturbano.

Volatile: l’acidità volatile è la quantità di acido acetico presente nel vino. Un eccesso di volatile è dovuto in genere a inciampi nel processo di vinificazione: cattiva gestione della fermentazione alcolica, colmature e travasi fuori tempo massimo, erroneo utilizzo di solforosa, scarse condizioni igieniche. Pare che il rischio volatile-fuori-controllo aumenti nelle annate calde. A livello organolettico, una “volatile” spinta si riconosce abbastanza agevolmente al naso con una nota più o meno marcata e pungente di aceto.

Esistono centinaia di parole “difficili” in enologia, non possiamo certo spiegarle tutte insieme, specialmente il lunedì mattina, ma in futuro torneremo probabilmente sull’argomento per parlare quantomeno delle… catechine. Alla prossima!

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5 passi per diventare un intenditore di vino

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La passione sposta le montagne. Nella vita soltanto un forte desiderio supportato da una motivazione incessante e da obiettivi chiari è in grado di spingerci oltre l’inerzia del quotidiano verso il nostro personale modello di eccellenza. Se qualcosa ci appassiona veramente desideriamo viverla al massimo di intensità. Desideriamo goderla a pieno. Ma per assaporare tale intensità, per coglierne tutte le sfumature, ci serve tecnica. La passione senza la tecnica ci rende superficiali, entusiasti ma inaffidabili.

Se la tua grande passione è il vino, ci sono diverse aree cui attingere per affinare la tua tecnica. Esistono parole-chiave e pietre miliari per guidarti lungo il percorso: studio, assaggio, riflessione, condivisione, viaggio. Abituati a tenere un diario sulle tue esperienze enoiche. Scrivi anche se pensi di non saper scrivere. Raccontati, prima di tutto a te stesso. Assaggia insieme agli amici, ma assaggia anche da solo. Divertiti!!! Non c’è altro modo per coltivare e alimentare una passione.

Eccoti cinque passi per potenziare immediatamente la tua tecnica e raggiungere un livello superiore:

  1. Controlla la cassetta degli attrezzi La cassetta degli attrezzi simboleggia la padronanza dei fondamentali. Immagina un pianista che non sa leggere il pentagramma o un muratore che ha scordato la formula del calcestruzzo. Ridicolo no? Per un intenditore di vino, i fondamentali riguardano viticoltura, enologia, e tecnica di degustazione. Questa è la base: argomenti sviscerati nella didattica di ogni buon corso in circolazione. Ma frequentare un corso, superare un esame, talvolta non basta. Prestissimo ci scordiamo un mucchio di cose che pensavamo di aver digerito. Ad ogni modo… sicuro di avere le idee chiare sui fondamentali? Che dici se facciamo una prova..? Il tannino amaro che percepisci in quel rosso da cosa può dipendere? In un bianco, che cosa comporta nel profilo organolettico un lungo affinamento sur lie? Densità elevate in vigna a che servono? Sono sempre la soluzione ideale? Quel vino è più acido o più sapido? O più tannico? Sei in grado di beccare subito e senza fallo un vago sentore di tappo al ristorante, che alla lunga ti rovinerebbe la cena? Quel vino è leggermente ossidato, te ne sei accorto? E che mi dici della volatile??? Queste sono tutte competenze elementari. La cassetta degli attrezzi è il tuo bagaglio di competenze, la base della tua wine skill. Un fattore dinamico, in perpetuo divenire. Chi si ferma, sta già indietro anni luce.

  2. Assaggia spesso, assaggia alla cieca, assaggia stili differenti Stabilisci una routine di degustazione con un minimo di programmazione alle spalle. Aperitivi ed happy hour sono fantastiche occasioni di divertimento e socializzazione, ma funzionano meno dal punto di vista didattico. Degustazione tecnica, con carta e penna, almeno una volta a settimana. Potrebbe essere la “palestra di assaggio” della tua associazione preferita, oppure una serata tematica a casa di amici. L’importante è il focus: spazio dedicato all’analisi, all’utilizzo delle tue risorse di degustatore. Assaggia alla cieca, per non inciampare nei pregiudizi. Assaggia stili e prodotti differenti, anche per provenienza geografica. I vini italiani sono straordinari, ma il mondo è immenso. Esistono profumi, sapori e sfumature che non troverai in un vino italiano genuino. Non limitarti. La tua bandiera enoica sia unicamente la qualità.

  3. Entra in una community virtuale di appassionati . ma sforzati di ascoltare e di imparare da quelli più navigati di te piuttosto che voler raccontare a tutti quello che bevi, quello che fai, quante bottiglie di Sassicaia ha tuo cugino… Cerca di concentrarti sul desiderio di migliorare. Il “confronto” spesso è un concetto vuoto, non esiste: ti lascio parlare, così poi parlo io. Se proprio muori dalla voglia di pubblicare i tuoi trionfi enoici aggiungi immagini strepitose e sforzati di dire qualcosa di utile anche per gli altri.

  1. Poniti obiettivi misurabili Formulare obiettivi chiari sul breve e medio periodo e lottare fino a sbattersi per raggiungerli costituisce in qualsiasi campo la formula fondamentale del successo. Riuscire a beccare alla cieca otto volte su dieci un Cabernet Sauvignon in un panel di Merlot. Compilare in otto settimane trenta schede su altrettanti Riesling. Assaggiare tutti i più famosi Barolo di La Morra. Trascorrere una settimana nella Côte de Beaune. Andare a cena con Armando Castagno. Ma anche, perchè no? Obiettivi lavorativi. Se il vino ti appassiona potresti desiderar di lavorare in questo ambiente. Diventare delegato della tua associazione? Collaborare con una rivista di settore? Impiegarti presso un’azienda delle tue parti? Occuparti del rifornimento delle cantine dei tuoi amici? Ricorda, gli obiettivi devono essere misurabili: devi cioè poter stabilire in maniera chiara e inconfutabile se l’obiettivo è stato raggiunto o meno!

  2. Investi in un wine coach Se davvero vuoi fare il salto di qualità, ottenere competenze superiori, assumere nuove prospettive, colmare lacune che da solo non sei in grado di individuare, il rapporto diretto con un professionista può darti quel bonus che non troveresti altrove. Si tratta di un investimento sulla tua wine skill che porterai con te per il resto della tua “carriera”. Fattore non trascurabile, spesso questi incontri si trasformano in autentiche amicizie e portano sovente impensabili sviluppi professionali.

Che tu sia un aspirante professionista o un semplice winelover, sviluppare capacità altamente performanti ti consentirà di godere con maggiore pienezza della tua passione preferita e di diventare uno stimato intenditore, acquisendo prestigio e considerazione all’interno di una cerchia sempre più vasta di appassionati. E tutto questo lo otterrai…divertendoti! Non è fantastico?

E dunque, caro lettore, non ti resta che iniziare a “fare sul serio” 😉 Se questo articolo ti è piaciuto e/o ti è stato utile ti prego di condividerlo con i tuoi amici sui social networks. Grazie e… alla prossima!

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Breve guida al (sorprendente) Refosco d’Istria

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Ogni famiglia ha la sua pecora nera. Nella famiglia del Refosco, antico lignaggio di vite autoctono da tempo immemorabile nelle regioni friulane e istro-venete, la pecora nera si chiama refosco dal peduncolo verde, altrimenti noto come refosco istriano o refošk.

Questo vitigno antico costituisce la più diffusa varietà a bacca nera nella penisola d’Istria e nella provincia di Trieste. Gode peraltro di fama ingenerosa: vinello da taverna, buono al più per ingollare un paio di polpette unte, parente povero e indegno di quel Refosco dal peduncolo rosso nobile, sontuoso, che eccelle sui Colli Orientali del Friuli.

Il refošk, dal canto suo, sconta errori non suoi. Nella sua culla, adagiata fra il litorale istriano e la dorsale dei colli Savrini, vige tuttora una cultura contadina “vecchio stampo”, ove la quantità conta assai più della qualità. E questo discolo, questo vitigno, esuberante e caciarone di suo, diciamo che esagera… sbraca! Allevato su terreni ricchi, e trattato con scarsa propensione al contenimento vegetativo, il nostro refošk produce quintalate di grappoli per ceppo. Se a questo si aggiunge che è un cultivar che matura tardi, e che spesso non si ha voglia di aspettare, ecco che nel complesso avremo: acidità vertiginose e verdi, debole struttura, aromi diluiti. In compenso avremo anche un triliardo di litri e dunque… cin cin! Tutti contenti… 😦

Negli ultimi anni, per ragioni di prossimità geografica, ho bazzicato in un lungo e in largo le cantine che punteggiano le zone del refošk. L’ho fatto, in tutta confidenza, perchè volevo assaggiare tutte le ottime malvasie che si producono in questo spettacoloso lembo di Adriatico. Del refosco istriano francamente mi importava una pippa. Nel mio immaginario personale era un vino buono come disgorgante, al massimo. Ma poi naturalmente incontri persone, ascolti storie, assaggi vini diversi… inizi a comprendere. E poi capisci.

Dilaga una giovane generazione di vigneron che, senza tradire le (discutibili) propensioni vitivinicole dei padri – e quindi continuando a produrre comunque quintalate di refosco istriano di “pronta beva”, diciamo… – da alcuni anni si sono inventati un Refošk nuovo, diverso, che spiazza l’assaggiatore avvezzo all’altro. Come ci sono riusciti? Utilizzando un approccio moderno e sforzandosi di comprendere la natura profonda del vitigno.

Il refosco dal peduncolo verde va affamato. La sua vigoria priapesca va domata. In che modo? Allevandolo su terreni poveri, magri, sassosi. In collina. Infittendo le vigne con densità di impianto elevate, in modo che i singoli ceppi non facciano vita comoda ma siano costretti a sbattersi per assimilare i nutrienti. Riducendo le rese, per favorire la concentrazione zuccherina e aromatica, così da promuovere la qualità del frutto. Applicando una corretta gestione dell’apparato fogliare, tramite tecniche moderne di potatura. Curando aspetti fondamentali come giacitura, orientamento. Introducendo concetti rigenerativi di agricoltura integrata, biologica e talvolta biodinamica.

Esiste un preciso modello di Gran Refošk che molti giovani enologi sloveni inseguono in cantina, dopo averlo coccolato in vigna e vendemmiato. La parola chiave è “concentrazione”: intensità, forza, struttura. Queste uve di elevato livello qualitativo, esaltanti nelle annate di pregio, danno un mosto ricco e concentrato che macera anche trenta giorni prima di un lungo passaggio in legno, previo utilizzo di tutte quelle moderne tecniche atte a favorire estrazione e stratificazione.

Nasce così, dopo adeguata permanenza nelle buie cantine istriane, un Refošk che è in pratica una “riserva”: un vino muscolare e opulento, dal color rubino compatto e impenetrabile. Tipicamente profuma di prugne in confettura, amarene, viole macerate, ma il bouquet si arricchisce di inserti di frutta secca, cioccolato, polvere di caffè. Robusto al palato, denso, talvolta quasi marmellatoso, ma sempre sostenuto dal nerbo, dalla gagliarda acidità del vitigno – ecco la pietra miliare, l’elemento-chiave che consentirà evoluzione e longevità, e che bilancia egregiamente tenore alcolico ed estratto. Grande intensità aromatica in bocca, persistenza notevole. Vinone.

E dunque bravi questi ragazzi, brave queste aziende disseminate per lo più nella Slovenska Istra, sulla colline o dinanzi al mare. La pecora nera si è fatta un restyling completo, mantenendo identità e impronta caratteristica del buon vecchio refošk. La produzione peraltro è ancora piuttosto contenuta. Assaggiare questi vini, specialmente in Italia, non è semplicissimo. Ma se capitate da queste parti, magari diretti alle spiagge croate l’estate prossima, fareste meglio a fermarvi un paio di giorni. Facciamo tre, e poi mi dite. Alla prossima!

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