Di solito le bottigliate le prendi in testa. Stordiscono, confondono. Lasciano il segno. Se sopravvivi hai qualcosa da raccontare, una suggestione, un’esperienza – dolorosa o rivelatrice.
Il Quinto Quarto Rosso di Terpin di bottigliate me ne ha data una tosta, spiazzante. Conosco i vini di Franco. Ne ho scritto in varie occasioni, diffusamente anche su queste pagine digitali. E quando un vino lo descrivi, quando uno stile lo racconti, hai la sensazione di assorbirlo in te stesso. In cuor tuo senti che un poco ti appartiene, in qualche modo entra a far parte di te e… smarrisce il potere di sorprenderti.
Ma poi un giorno… magari sono settimane che assaggi ottimi vini da selezionare per una serata, vini ottimi appunto, ma infondo convenzionali, tutto sommato prevedibili, frutto e legno, legno e frutto… un giorno entri in un bar e non c’è nessuno, scorri la bacheca dei liquidi in mescita, e quasi distrattamente ordini il rosso di Terpin – è il base, si affretta a dire il ragazzo dietro il banco, quasi a volersi come Pilato lavar le mani nel caso di qualche stortura. Ma tu raccogli il bicchiere, con paterna indulgenza – ma che ne sanno..? – vai ad appollaiarti sullo sgabello più lontano, sotto la finestra, con la luce del pomeriggio che batte sulla mensola e il tuo quaderno e appunti da sistemare, e un vino che vorresti sodale discreto, né conturbante né disturbante, come fugace compagno.
E invece subito, dal principio, appena la luce colpisce il bicchiere riverberando attorno i riflessi del vino, ti accorgi che questo compagno non potrà essere discreto, né tanto meno silente. Magnetico fin dallo sfavillante cromatismo esige una compunta, totale attenzione.
Del colore immediatamente conquista la densità del pigmento, così lieve da esaltare una rossa trasparenza. Scorre con leggerezza, con un garbo inusitato. Accosto il naso al calice. Il profumo è vivo, fragrante, gioioso. Mi ricorda l’uva un poco acidula ma è tutto intessuto di fiori, propoli, avvolto in una freschezza balsamica e mentolata.
Un connubio di Merlot e Cabernet Sauvignon, ma non li riconosco. Gli odori sfuggono a qualsiasi catalogazione, si sprigionano con esuberante dinamismo, si susseguono cangianti. Ecco affiorare il frutto, piccole bacche selvatiche, ribes, fragoline, mirtilli in un tripudio di suggestioni olfattive. Rammentano l’impronta del Collio? Non so. Ritrovo certamente l’impronta di un uomo, di uno stile, di un pensiero. La sua coerenza. Emergono sbuffi di terra e sasso. Seducenti suggestioni che vorrebbero spingermi alla resa.
Resisto. Sovente un naso leggiadro illude, soltanto per dare nel sorso una cocente delusione. Resisto, e assaggio. Mi sovvengono ricordi di fermentazioni spontanee, lieviti selvaggi, chiarificazioni e filtrazioni bandite, solforose ai minimi sindacali. Penso alla terra sana, non spogliata, vezzeggiata in un approccio che oggi chiamiamo biologico ma che è solamente, come direbbe Venditti, amore.
Il sorso vibra agilissimo, quasi puntuto al principio, per poi espandersi in bocca come un leggiadro fiume, pregno di un’anima ricca, generosa, sapida. Un flusso, un danzare di aromi intrecciati… succo d’uva, frutti rossi, pietre sbriciolate e ricordi di bosco. Il corpo è materico, eppur lieve. Equilibrio, armonia, intensità paiono d’un tratto categorie vuote e inutili. Rifulge qualcosa nel liquido che non può, non vuole, non deve venire ingabbiato. Ha tempra rustica, il tono dell’artigianalità di un tempo, che dona purezza. Ancora un sorso e tutto si cangia, si amplifica, si distende, in una ipnotica sinfonia d’espressione.
Spulcio la rete, scorro le enoteche digitali e i loro slogan didascalici… vino base, vino quotidiano, entry level. Quante volte ho usato io stesso – anche ieri, anche oggi – simili locuzioni. Forse esse trovano ragione d’essere nel campionario di un piazzista, che sciorina tutta la gamma in assortimento ai potenziali acquirenti. Ma non dovrebbero trovare spazio sulle pagine o sulla bocca di un semplice, appassionato narratore. Perchè quando il vino tocca le corde dell’emozione, le categorie intellettuali crollano. Vengono meno gli schemi, le classificazioni. Esiste soltanto l’estatico momento, il contingente vissuto. Che va trasmesso con l’afflato del poeta, unico testimonio attendibile di tanta, incommensurabile gioia. O con il meravigliato stordimento di chi ha appena preso una bottigliata nel cuore.